Articolo 8. Ombre d’inchiesta e Voci dal Silenzio

Dopo l’11 aprile 1991, la Procura di Livorno indagò sul disastro del Moby Prince, chiudendo nel 1998 con una tesi comoda ma fragile: nebbia ed errore umano. Ma la Commissione della XVII Legislatura (2015-2018) e quella della XVIII (2021-2022) smontano questa narrazione, scavando nei silenzi per restituire voce a un equipaggio sacrificatosi mentre il traghetto bruciava. Non fu distrazione: i corpi, sparsi tra ponte di comando e corridoi, mostrano mani al timone, un ultimo atto di dedizione per i passeggeri. La Relazione Finale della XVIII Legislatura invoca il reato di strage, unico non prescritto, indicando un disastro dovuto a responsabilità sistemiche, segnato da omissioni e depistaggi.

La nebbia, alibi iniziale, fu un depistaggio: l’ammiraglio Sergio Albanese, comandante della Capitaneria, sentito in audizione, ha ricordato che la notte della collisione, nell’ora dell’impatto, non era presente a Livorno, in quanto di rientro da una cerimonia di rappresentanza tenutasi a La Spezia. Arrivato in Capitaneria a Livorno alle ore 23 circa dichiarò una “nebbia fitta” mai esistita, smentita da bollettini meteo, testimoni come Romeo Ricci, Paolo Thermes e Roger Olivieri e video come quello dei D’Alesio. La visibilità era ottima, il mare calmo, ma Albanese, che non prese mai in modo chiaro il comando, non coordinò i soccorsi al Moby, concentrandosi sull’Agip Abruzzo, evacuata entro pochi minuti. La Commissione lo accusa di inerzia: nessuna sua voce nelle registrazioni VHF, nessun ordine chiaro, lasciando il traghetto solo fino alle 23:45, quando i vigili del fuoco trovarono cenere. Il porto di Livorno fallì: privo di radar adeguati e piani di emergenza, non monitorò la rada né l’ancoraggio illegale dell’Agip Abruzzo, in zona vietata.

ENI, proprietaria della petroliera, tacque su anomalie: un blackout la rendeva cieca, senza luci, forse coinvolta in bunkeraggio clandestino con bettoline. Non fornì documenti interni, opponendo un “comportamento opaco” che ostacolò le indagini. La Commissione ipotizza una terza nave—forse la 21 Oktobar II—che interferì con la rotta del Moby, costringendo Ugo Chessa a una virata fatale contro la cisterna n. 7. L’accordo assicurativo tra ENI e Navarma, firmato il 18 giugno 1991, chiuse ogni conflitto, dissequestrando la petroliera e limitando accertamenti più profondi.
Le autopsie dipingono un orrore: monossido dal 6% al 90% nei polmoni, morte lenta per asfissia, non fiamme. Alcuni sopravvissero, soffocati in una trappola d’acciaio. Chessa cercò una via di salvezza, ma il destino li schiacciò. Alessio Bertrand, unico sopravvissuto, fu salvato alle 23:40 da Walter Mattei e Mauro Valli. Veneruso alle 02:00 salì sul traghetto, prova che interventi erano possibili anche poche ore dopo l’impatto. Un video dell’elicottero dei Carabinieri, alle 05:00 dell’11 aprile, mostra un uomo in camicia chiara vivo sul ponte, poi carbonizzato, un grido di tempo perduto. Gli oblò della sala De Luxe, rotti dai soccorsi per cercare superstiti, lasciarono entrare fumo fatale, come osservò Florio Pacini.

Questa coltre di versioni comode protesse i responsabili, lasciando i familiari senza pace. Le inchieste iniziali, superficiali, ignorarono i silenzi radio post-collisione, un enigma mai sciolto. La Commissione raccoglie il lutto delle famiglie come un appello: un soccorso partito prima delle 23:05 avrebbe cambiato tutto? Quel rogo, figlio di omissioni istituzionali, è un debito verso chi tenne il fronte. L’equipaggio, ultimo baluardo, merita una luce che illumini non solo la loro fine, ma le verità sommerse da chi preferì il silenzio a una giustizia scomoda.
Luca Tacchi

Autore: Luca Tacchi

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