Il lungo filo rosso delle stragi di innocenti. Memoria tra luci ed ombre

Posta d i Lettori: Elisa Giordano

La memoria collettiva non è democratica, ma selettiva, e questa selettività può generare percezioni distorte della realtà.

Donne collocano una bandiera israeliana accanto a una bandiera australiana su un cancello all’esterno del Bondi Pavilion a Bondi Beach di Sydney, dopo la sparatoria  (Sole 24 Ore)

Il 19 dicembre 2016 un camion rubato fu lanciato contro la folla al mercatino di Natale di Berlino, provocando 12 morti e decine di feriti. L’attacco, rivendicato come terrorismo, fu perpetrato da Anis Amri. Fabrizia Di Lorenzo, italiana di 31 anni, viveva e lavorava a Berlino ed è stata uccisa nell’attacco.


Tra le vittime c’erano cittadini di varie nazionalità; alcune furono rapidamente ricordate nei media, altre invece sparirono quasi del tutto dalla memoria pubblica. Questo episodio evidenzia come la narrazione delle tragedie possa selezionare chi viene ricordato e chi invece viene dimenticato.

In molte tragedie internazionali, si osserva un fenomeno ricorrente: non tutte le vittime vengono ricordate allo stesso modo e spesso la differenza dipende più dal capitale narrativo e sociale che dall’effettiva gravità dell’accaduto.

Ci sono casi di giovani studiosi o ricercatori provenienti da contesti privilegiati e famiglie colte, le cui storie vengono costruite come simboli pubblici.
La loro vicenda diventa emblematico esempio di dolore, eroismo o tragedia, e riceve attenzione costante dai media e dall’opinione pubblica. Al contrario, persone con ruoli più comuni o provenienti da contesti meno privilegiati (che subiscono eventi altrettanto drammatici) spesso spariscono dalla memoria collettiva, ridotte a statistiche o numeri, senza che la loro storia personale venga raccontata.

Questa disparità nasce da una selezione simbolica che i media operano: le storie che funzionano come simboli hanno caratteristiche facilmente comunicabili: un profilo riconoscibile, coerente e “pulito”, un contesto familiare in grado di gestire la narrazione pubblica, e la possibilità di incarnare valori condivisi dalla società.
Le vittime senza questi tratti, pur essendo altrettanto reali e tragiche, ricevono poca o nessuna attenzione.

Il problema non riguarda la bontà o il valore delle vittime, né implica che chi viene ricordato “meriti” più degli altri.
Al contrario, mette in luce un difetto strutturale della narrazione pubblica: la memoria collettiva non è democratica, ma selettiva, e questa selettività può generare percezioni distorte della realtà.

Un altro aspetto critico riguarda la responsabilità individuale e la consapevolezza del rischio. In molti casi, giovani provenienti da contesti privilegiati si recano in luoghi instabili o pericolosi mossi da ambizioni accademiche o personali, e non da reale necessità o da lavoro professionale.
La narrazione pubblica tende a romanticizzare queste scelte, ignorando che il mondo reale spesso non concede margini di errore, soprattutto in contesti caratterizzati da instabilità politica o assenza di stato.
La combinazione di brillantezza accademica, status sociale elevato e scarsa preparazione sul terreno crea una percezione illusoria di sicurezza, che può portare a tragedie prevedibili.

Al contrario, chi opera in contesti pericolosi per motivi professionali (come operatori umanitari o giornalisti) è sottoposto a addestramento, preparazione culturale e linguistica, un’attenta valutazione dei rischi, eppure la narrazione tende comunque a distinguere tra “eroismo” e “ingenuità”.
Questo crea una sorta di doppio standard, in cui il contesto sociale e culturale della vittima determina la lettura della vicenda pubblica più di quanto contino le circostanze oggettive.

Il risultato è duplice: da un lato, alcune storie vengono elevate a simbolo e la loro memoria diventa strumento di riflessione e commemorazione; dall’altro, molte altre tragedie vengono dimenticate, con il rischio che i giovani e la società in generale imparino una lezione incompleta sulla realtà dei pericoli e sulla necessità di prudenza, preparazione e consapevolezza.
La narrazione diventa quindi meno educativa e più ideologica, trasmettendo un’idea illusoria della sicurezza e della prevedibilità del mondo.
In conclusione, è necessario ripensare il modo in cui raccontiamo le vittime, non per negare l’attenzione a chi è simbolicamente rilevante, ma per creare una memoria più equilibrata, che includa tutte le persone colpite dalle tragedie e per trasmettere in modo realistico la lezione fondamentale: il mondo è spesso più complesso e pericoloso di quanto la narrativa pubblica voglia farci credere.

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