Quando la pace arriva da chi non ci piace

Posta dei Lettori: Elisa Giordano

Oggi è stato annunciato il primo vero accordo di pace tra Israele e Hamas, mediato dagli Stati Uniti sotto la guida di Donald Trump. Il piano prevede il rilascio di ostaggi israeliani, la liberazione di prigionieri palestinesi, un ritiro parziale dell’esercito israeliano da Gaza e l’apertura di corridoi umanitari. Si tratta di un passo storico o quantomeno, del tentativo più concreto degli ultimi anni di interrompere un ciclo di violenze apparentemente infinito.

Eppure, nonostante la portata dell’annuncio, parte del dibattito pubblico si è concentrata non tanto sul contenuto del piano, quanto sulla figura di chi lo ha promosso. Donald Trump è un personaggio polarizzante, per molti il suo nome evoca più divisioni che diplomazia. Così, una parte degli intellettuali e commentatori ha reagito con scetticismo, più per diffidenza verso il messaggero che per un’analisi del messaggio.

È un riflesso umano (e politico) comprensibile: quando una soluzione arriva da chi non ci piace, cerchiamo i difetti per non dover riconoscerne i meriti. Ma è anche un rischio. Se si giudica la pace in base a chi la propone e non ai risultati che può produrre, si finisce per delegittimare ciò che più dovrebbe unirci. Non si tratta di santificare Trump, né di ignorare i limiti evidenti del piano (ancora da verificare nella pratica, con molte incognite su tempi, garanzie e governance di Gaza). Si tratta di riconoscere che, dopo mesi di guerra e migliaia di vittime civili, ogni spiraglio di tregua merita di essere considerato con onestà, a prescindere dal colore politico di chi lo apre.

Anche perché, al di là delle dichiarazioni e dei riconoscimenti formali, l’Europa non ha finora presentato un piano di pace comparabile per concretezza. Josep Borrell ha delineato una “roadmap” in dieci punti per una soluzione a due Stati, ma resta sulla carta. Alcuni Paesi, come Spagna e Irlanda, hanno riconosciuto lo Stato di Palestina, gesto simbolico e importante ma privo di effetti immediati sul terreno. Altri, come Francia e Germania, sostengono la necessità di un processo politico inclusivo, ma senza aver ancora trasformato questa posizione in una mediazione effettiva tra le parti.

In questo senso, che piaccia o no, il piano americano rappresenta oggi l’unico tentativo di accordo operativo fra Israele e Hamas. E se davvero riuscirà ad avviare una tregua stabile, forse dovremmo sospendere per un momento i giudizi su chi ne sia l’artefice, per tornare a guardare al risultato: vite salvate, armi ferme, una prospettiva (anche fragile) di pace.

Perché la pace, in fondo, non dovrebbe mai essere di destra o di sinistra.
Dovrebbe solo essere pace.

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