Articolo 7: Ritardi Fatali
Alle 22:25 del 10 aprile 1991, il Moby Prince bruciò sotto gli occhi di Livorno, un faro visibile a miglia, ma i soccorsi si attardarono in un limbo fatale di eventi concatenati.

La Commissione della XVII Legislatura, istituita nel 2015, scava in questo vuoto per dare giustizia a chi attese invano.
L’equipaggio, guidato da Ugo Chessa, si sacrificò per i passeggeri, rinunciando alle lance—il mare era un rogo—e radunando tutti nella sala De Luxe, un rifugio corazzato secondo il piano di sicurezza. Ma una “nebbia” di inerzia soffocò ogni speranza, lasciando il traghetto solo contro le fiamme.
La capitaneria captò l’allarme alle 22:27 via VHF, un grido perso nel caos, ma agì solo alle 23:05, 38 minuti dopo, puntando sull’Agip Abruzzo, dove 30 uomini furono evacuati entro le 23:45. Il Moby Prince, con 140 anime, restò abbandonato fino alle 23:34, quando i vigili del fuoco trovarono un relitto in fiamme. Le comunicazioni VHF erano un groviglio—“Chi è in pericolo?”—senza eco; le motovedette CP 232 e CP 250 indugiavano, ostacolate da ordini confusi.
Gli ormeggiatori Walter Mattei e Mauro Valli salvarono, alle 23:40, Alessio Bertrand. Le comunicazioni radio da lì sono drammatiche, il Moby Prince viene riconosciuto e gli ormeggiatori chiedono disperatamente aiuto. Da chi doveva prendere decisioni non giungono disposizioni, sul canale radio cala un silenzio surreale rotto da fischiettii e sberleffi in dialetto pugliese ed in spagnolo. Gli ormeggiatori restano in coda al traghetto senza ordini ne aiuto per minuti, prova che un intervento più deciso era possibile, eppure il caos prevalse.
Verso le 02:00 un altro ormeggiatore, Salvatore Veneruso, salirà, con semplici abiti da la voro e senza maschera protettiva sul volto, a bordo dall’esterna poppa del Moby Prince per agganciare un cavo e vi rimase per dieci o quindici minuti prima di tornare sul rimorchiatore Tito Neri, dopo aver constatato la violenza e la distruttività dell’incendio.
Un video dell’elicottero dei Carabinieri, girato la mattina presto dell’11 aprile verso le 05:00, sembra mostrare un corpo non carbonizzato sul ponte di poppa, identificato come Antonio Rodi, cameriere del ristorante della nave. Successivamente, il corpo fu trovato bruciato, indicando morte lenta per calore o soffocamento, segno di un tempo dilapidato.
Le autopsie rivelarono monossido dal 6% al 90% nei polmoni: molti morirono soffocati in un’agonia lenta. Nella sala De Luxe, i corpi, accasciati in pose di fuga, raccontano forse una tragedia aggravata: gli oblò furono rotti dai soccorsi la mattina dell’11 aprile, per verificare se qualcuno fosse vivo, ma il fumo tossico invase il rifugio, avvelenando chi resisteva che cercò disperatamente di fuggire, come osservò Florio Pacini. L’equipaggio morì al proprio posto—chi sui ponti con Chessa, chi coi passeggeri—tradito da un sistema che si perse nell’oscurità.
Questo dramma di speranze tradite dipinge un porto impreparato, dove il coraggio dell’equipaggio stride con l’inerzia di chi fallì.
Il video dell’uomo vivo all’alba e l’impresa di Veneruso gridano una verità sepolta: vite potevano essere salvate. Quel ritardo, figlio di anni di disattenzione, è un debito verso chi resistette nella sala De Luxe, sperando invano. Questo è un appello per squarciare il velo, per dare voce a un coraggio che merita memoria, non oblio.
Autore: Luca Tacchi
Foto: Massimo Sestini