Articolo 5. Livorno. Porto di nebbie

Articolo 5: Livorno, Porto di nebbie

Negli anni ’80, Livorno era un crocevia di rotte, un porto dove il caos spesso vinceva sulle regole, un dedalo di traffici che nascondeva fragilità e ombre. Sospetti di traffico d’armi e gasolio, emersi durante la XVIII Legislatura, dipingevano una rada inquieta, dove carichi non dichiarati transitavano sotto occhi distratti, un sottobosco di segreti che la Commissione della XVII Legislatura, istituita nel 2015, non ha potuto ignorare.

Il 10 aprile 1991, alle 22:00, il Moby Prince, un veterano della Navarma Lines, salpò con 141 persone verso Olbia, ignaro del destino in agguato, un viaggio che si trasformò in un requiem.
La Commissione esplora questo passato per rendere giustizia all’equipaggio, sacrificatosi nelle postazioni sotto una “nebbia” di mutismo che avvolge i fatti. L’Agip Abruzzo, carica di migliaia di tonnellate di Iranian Light, stazionava in zona vietata dall’ordinanza 12/88, un colosso fuori controllo che nessuno richiamò.

Le comunicazioni VHF erano un labirinto di interferenze, un groviglio che lasciava il mare senza voce, e l’assenza di un piano d’emergenza rendeva il porto nudo davanti al pericolo.
Chessa e i suoi seguirono una rotta consueta, un percorso battuto che conoscevano come le loro mani, ma si trovarono in un sistema che non offriva riparo. Quella notte, il comandante del porto era assente, c’è chi lo vuole ad una serata di gala, e poi in mare, impegnato in attività mai chiarite invece di coordinare i soccorsi, un vuoto di leadership che pesò come un macigno. Quando il rogo divampò, alle 22:25, la capitaneria esitò, lasciando il Moby Prince solo fino alle 23:45, un ritardo che trasformò il coraggio e la professionalità in tragedia.

Le regole del mare, che obbligano chiunque oda un SOS a intervenire, si scontravano con un’amara realtà: i soccorritori rischiavano spese senza rimborsi garantiti, un disincentivo che per alcuni contribuì al rallentamento delle motovedette private.
Nei giorni precedenti il 10 aprile 1991, inoltre, l’Agip Abruzzo tracciò un percorso che Florio Pacini, ex dirigente Navarma, considera sospetto, un enigma che precede la tragedia del Moby Prince. Pacini racconta che la petroliera, partita da un porto egiziano il 4 aprile, completò il viaggio verso Livorno a una velocità insolita, coprendo migliaia di miglia in tempi record. Una nave carica di greggio, spiega, avrebbe dovuto seguire rotte più lente e attraccare per verifiche, ma l’Agip Abruzzo puntò dritta al Tirreno senza soste documentate.

Questa fretta è la prima incongruenza: i registri di ENI, mai forniti integralmente, non chiariscono perché la nave accelerò, né se trasportasse qualcosa oltre il carico dichiarato. Pacini altre anomalie: il caricamento delle cisterne pone alcune perplessità riguardo alla distribuzione del peso e del rispetto dei protocolli di sicurezza; il diario di bordo sembra tacere su scali intermedi o cambi di rotta, lasciando un vuoto che alimenta dubbi. Tra il 7 e il 9 aprile, la petroliera si avvicina a Livorno, ma non comunica con il porto, un silenzio che stride con le procedure standard.

La sera del 9 aprile, il comandante Giuseppe Superina riceve un invito a cena dall’equipaggio di un’altra nave Agip, l’Agip Napoli, già in rada, un incontro informale che Pacini ricorda come l’ultimo atto prima del disastro. Per lui, la corsa anomala, il diario incompleto e l’opacità di ENI suggeriscono che la petroliera nascondesse un’operazione non dichiarata, un tassello che portò alla collisione fatale del 10 aprile.

La verità sommersa è un debito da saldare, un’eco che chiede di essere ascoltata per chi tenne il fronte in una notte che non doveva finire così. Livorno, con i suoi traffici oscuri, le sue lobby e le sue omissioni, divenne una scena dove il sacrificio dell’equipaggio stride con l’inerzia di chi lasciò fare. Un monito per un sistema che chiuse gli occhi troppo a lungo, un appello affinché quel coraggio non resti un’ombra senza giustizia.
Luca Tacchi

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