Articolo 4: Soccorsi Tardivi, Vite Spezzate.

Un bagliore squarciò la notte di Livorno, un faro di disperazione che il porto non seppe decifrare, un segnale perso nel vuoto. Alle 22:25 del 10 aprile 1991, il Moby Prince bruciava, visibile a miglia di distanza, ma i soccorsi si dissolsero nel nulla, lasciando il traghetto alla mercé delle fiamme. L’equipaggio, fermo nelle postazioni di emergenza, si sacrificò per i passeggeri mentre una “coltre” di inerzia soffocava ogni speranza, un silenzio che pesò più del fuoco stesso.
La capitaneria ricevette l’allarme alle 22:27 via VHF, un grido spezzato nel caos delle onde radio, ma agì solo alle 23:05, 38 minuti dopo, concentrandosi sull’Agip Abruzzo, dove il comandante evacuò 30 uomini con efficienza. Il Moby Prince, con 140 anime a bordo, restò solo, abbandonato fino alle 23:45, quando i vigili del fuoco arrivarono, trovando lamiere roventi e fumo, un relitto che gridava l’assenza di chi avrebbe dovuto intervenire. Le comunicazioni erano un groviglio di domande senza risposta—“Chi è in pericolo?”—e le motovedette CP 232 e CP 250 arrancavano in un mare ostile, ostacolate da ordini confusi.
L’equipaggio, guidato da Ugo Chessa, prese una decisione cruciale: non calò le lance di salvataggio, una scelta che non fu dettata dalla paura, ma dal coraggio, dal rispetto dei protocolli e dalla responsabilità. Con il mare trasformato in un tappeto di fiamme alimentate dall’Iranian Light, dichiarare l’abbandono nave sarebbe stato un salto nell’inferno. Anche l’impianto antincendio fu bloccato. L’acqua viene pescata dal mare, lo sversamento avrebbe perciò potuto portare combustibile agli Sprinkler, inondando i ponti di petrolio. Dovevano resistere, domare il fuoco, proteggere i passeggeri e attendere i soccorsi.
Seguendo il piano di sicurezza, ordinarono quindi ai passeggeri di radunarsi nella sala De Luxe, un’area interna corazzata progettata per resistere al fuoco, uno scudo d’acciaio contro l’orrore esterno. Fu un atto di fede nel protocollo, un tentativo di guadagnare tempo prezioso in attesa di soccorsi che, tragicamente, non arrivarono mai. Le autopsie rivelarono monossido dal 6% al 90% nei polmoni: molti morirono soffocati, vivi mentre il fumo invadeva anche quel rifugio, un’agonia lenta che un intervento rapido avrebbe potuto fermare.
Florio Pacini, ex dirigente Navarma, grida una verità ignorata: gli Sprinkler del Moby Prince, intatti, smentiscono che il fuoco abbia ucciso i passeggeri, impedito i soccorsi e divorato i ponti interni, un’ulteriore prova che il rogo non fu la mano assassina. Gli Sprinkler, sentinelle antincendio, hanno un bulbo di vetro con glicerina o alcool, che esplode non appena la temperatura sale a 68-79°C, liberando acqua nebulizzata sotto pressione. Sul Moby, i bulbi non si frantumarono, rivelando corridoi e salone De Luxe con temperature sotto i 68°C. L’esposizione al monossido dal 6% al 90%, non le fiamme, soffocò 140 vite. Il tempo li condannò. Questo silenzio degli Sprinkler è un urlo: la tragedia nacque altrove.
La Commissione della XVII Legislatura, nata nel 2015, denuncia un fallimento strutturale: un’azione entro pochi minuti avrebbe salvato vite, ma non c’era un piano d’emergenza né esercitazioni a sostenere la risposta, solo un porto cieco davanti al disastro. Fumi, fiamme e monossido trasformarono il Moby in una tomba d’acciaio. L’equipaggio, ultimo scudo di coraggio, morì al proprio posto, tradito da un sistema che si perse nell’oscurità, incapace di onorare la loro scelta.
Questo abisso di ritardi e omissioni non è solo una cronaca, ma un grido che taglia il silenzio: la Commissione punta il dito su chi lasciò che il tempo scorresse invano, per onorare chi resistette fino all’ultimo respiro. Le famiglie portano avanti un lutto che non si spegne, chiedendo giustizia per un soccorso mai arrivato, un appello che squarcia il velo di chi preferì tacere.
Luca Tacchi